La storia
L'Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “Crescenzi–Pacinotti” si trova nel centro storico di Bologna, le prime notizie dell’edificio risalgono agli anni intorno al 1542-43 quando era occupato dal Monastero delle Suore Agostiniane di Santa Maria della Concezione che avevano a loro disposizione anche ampi spazi destinati a orti e giardini. Il convento fu soppresso nel 1799 e lo stabile passò in mano a privati ed adibito ad usi diversi. Con l’avvento del Regno d’Italia vi si insediarono i Carabinieri; furono eliminati gli orti e costruiti nuovi edifici. L’uso militare proseguì fino all’ultimo dopoguerra; a questo seguì l’uso scolastico. Alla fine degli ’60 fu costruito il cosiddetto “capannone” che è un edificio in edilizia prefabbricata che ospita parte delle attività didattiche. L’edificio è sede dell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “Crescenzi–Pacinotti” a partire dai primi anni ’80.
Quella che segue è la prima immagine cartacea della scuola risalente al 1850, del Catasto Pontificio.
Chi era Pier Crescenzi
Pietro de' CRESCENZI nacque a Bologna intorno al 1233 e qui morì intorno probabilmente nel 1320, quasi novantenne.
Studioso di filosofia, medicina, scienze naturali e giurisprudenza, si laureò in diritto nella nostra Alma Mater. Ma la sua notorietà deriva dall’aver scritto il più importante testo di agronomia di epoca medioevale.
Il suo lavoro era quello di giudice e, come tutti i dottori in diritto laureatisi a Bologna, ebbe vaste possibilità di impiego. Infatti i Podestà delle città italiane, preferivano affidarsi ad un giudice estraneo, libero da legami locali, che ne potessero ridurre l’imparzialità. Giudice in diverse città, ebbe così modo di conoscere l’agricoltura delle regioni d’Italia e appassionarsi a tale disciplina.
Ad oltre sessant’anni, ritiratosi a Bologna, compose tra il 1304 e il 1309, il Ruralium commodorum (Liber cultus ruris), testo che è considerato il più importante trattato di agronomia in epoca medioevale, in cui teorizzò le tecniche agronomiche e di coltivazione dei giardini (indicando le diverse caratteristiche di quelle dei “signori” e dei “villani”), la cui applicazione determinerà quegli elementi caratteristici del paesaggio agrario moderno in Italia.
Nel Trattato sono descritte tutte le colture principali allora praticate, dalle cerealicole alle leguminose, gli ortaggi, le piante da frutto e la vite, i precetti per la manipolazione delle derrate, l’elenco delle proprietà medicinali di ogni pianta. L’opera si chiude con consigli per la caccia e l’uccellagione.
Tale trattato fu uno dei pochissimi testi di agronomia a vedere la luce nel periodo medievale, dopo l’ultima grande opera agronomica della latinità, la monumentale enciclopedia di Plinio.
Da allora trascorsero infatti milletrecento anni durante i quali furono pubblicati solo tre testi: uno in greco (la Geoponica, attribuita almeno per il suo nucleo centrale a Cassiano Basso), uno in arabo (il Libro dell’agricoltura dell’arabo Abū Zakariyā, ibn al-Awwām, uno dei capolavori dell’agronomia di tutti i tempi) e, appunto, il Ruralium Commodorum libri XII del Crescenzi (Trattato dell'Agricoltura), scritto in lingua latina.
Nonostante il successo delle diverse edizioni succedutesi, il giudizio sul valore dell’opera è oggi controverso, poiché alcuni autorevoli critici ne rilevano la mancanza di spirito sperimentale cosa che forse si può trovare nel latino “Columella”, o nell’arabo “ibn al Awwam” .
Al di là perciò di queste precisazioni riportate per dovere di cronaca, restano due, i dati essenziali, per la comprensione dell’opera di Pier Crescenzi:
una cultura varia e aperta oltre che al diritto, anche alla medicina, alla botanica e alle scienze naturali, che fece vivere l’autore in un ambiente intellettuale particolarmente attivo come quello dell'università di Bologna e dello Studium dei domenicani;
una carriera forse un po’ vagabonda, che gli permise però, grazie alla voglia di conoscere, di raccogliere osservazioni sui paesaggi rurali di parecchie zone dell'Italia settentrionale, di confrontare le tecniche agricole del tempo e i relativi sistemi di coltivazione
Per dichiarazione stessa dell'autore, il suo trattato di agronomia si basò su tre tipi di fonti: gli autori antichi, i moderni e l'esperienza personale: "molti libri d'antichi e de' novelli savi lessi e studiai, e diverse e varie operazioni de' coltivatori delle terre vidi e conobbi" .
Possiamo quindi dire che da questo breve ritratto esce fuori la figura di un uomo moderno, non solo per quei tempi, che è desideroso di apprendere e di capire, capacità questa che vorremmo trasmettere ai nostri studenti.
Calendario di agricoltura di Pietro de' Crescenzi,da un manoscritto del XV secolo, Musée Condé, Chantilly
Chi era Antonio Pacinotti
Antonio Pacinotti (nato a Pisa il 17 giugno1841 e ivi deceduto il 25 marzo1912 all’età di 71 anni) è stato il fisicoitaliano, a cui si deve l'invenzione della dinamo. Figlio di un docente di fisica tecnologica dell’Università di Pisa, affronta i primi studi con notevoli risultati, tanto che ad appena 15 anni fu ammesso a frequentare il corso di matematica, pura e applicata, dell’università. Ascoltando le lezioni di Riccardo Felici, illustre cattedratico del tempo (autore della legge che porta il suo nome e che permette di calcolare la carica quando è presente un campo magnetico variabile che induce una corrente in un circuito), i progressi furono rapidissimi.
Nel 1858, a soli 17 anni, raccolse in un quaderno, intitolato Sogni, i suoi appunti.
Si occupò della misura delle correnti elettriche e dei generatori dinamici di elettricità e nel 1859 (a 18 anni) prese forma la prima intuizione dell’anello – quello appunto di Pacinotti – che fu la base per la realizzazione della dinamo.
Mentre sta completando la costruzione dell’anello, si arruola volontario e partecipa come sergente alla Seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, prendendo parte alle battaglie di Solferino e San Martino.
Nel 1860 (a 19 anni) presso il laboratorio del padre, completa l’anello dando vita al primo esemplare di quello che è considerata da molti la prima dinamo, ma non si cura di brevettarlo. Per altri, quella di Pacinotti sarebbe da considerare solo di un prototipo della prima dinamo, che sarebbe perciò da attribuire a Zénobe Gramme, che la mise a punto nel 1869.
Intanto nel 1861, a vent’anni, si laurea e, nel 1862, è a Firenze per lavorare con il matematico e astronomo, nonché scopritore di comete, Giovanni Battista Donati, all’Istituto di studi superiori.
È solo nel 1865 che scrive un articolo per Il Nuovo Cimento dove descrive finalmente in maniera dettagliata il suo anello, mentre nello stesso anno è a Bologna, per assumere, a 24 anni, l’insegnamento di fisica nel nostro Istituto Tecnico Pier Crescenzi. Tra i suoi allievi avrà Augusto Righi, che sarà poi docente nella nostra scuola.
L’anello, che doveva servire meglio degli apparecchi allora esistenti per le dimostrazioni di scuola, si presentava forse in una forma molto modesta; più tardi però si vide che in esso erano racchiusi tutti gli elementi per risolvere i problemi più importanti dell’elettrotecnica. Di tutto ciò che aveva inventato, però, se ne sapeva poco o niente.
Nel corso di un viaggio in Europa, Pacinotti mostra la sua invenzione alle officine Fremont, nella speranza di vendere il brevetto. Ma in quell’occasione scoprì appunto che un capofficina di quell’ azienda, tale Zénobe Gramme, l’aveva brevettata nel 1871. Inutilmente Pacinotti pubblica una lettera di protesta sui Comptes Rendus, la rivista dell’Accademia francese delle Scienze, per far presente di essere arrivato agli stessi risultati dieci anni prima. La scoperta gli sarà riconosciuta, ma non in Francia.
Il prof. Pacinotti era persona di una tale modestia, che non era possibile indurlo a far valere i suoi diritti. Furono i suoi amici ad aiutarlo in questo frangente.
Dopo aver rifiutato la cattedra di fisica all’università di Cagliari, perché priva di idonei laboratori, nel 1881, a soli quarant’anni, succede al padre nella cattedra di fisica tecnologica dell'Università di Pisa.
E certo non perché fosse “raccomandato”!
Nel 1883 divenne socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei e, nel 1898, socio nazionale. Nel 1906 fu nominato senatore del Regno d'Italia. In occasione del cinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, nel 1911, Pacinotti sarà fatto oggetto di grandi festeggiamenti. Il paese gli riconosce i suoi meriti.
Muore l’anno dopo, nella sua Pisa.
Nel corso della sua vita ha ricevuto numerose onorificenze di cavalierato da parte dello Stato Italiano, fu anche nominato Cavaliere dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia) e ricevette una medaglia francese commemorativa per la Seconda Guerra d'Indipendenza italiana. A Goito, infine, una targa ricorda il Sergente Volontario Antonio Pacinotti che partecipò alle battaglie di Solferino e San Martino.
Francobollo emesso dalle Poste Italiane in occasione del cinquantenario della morte di Antonio Pacinotti
L’Indirizzo Socio-sanitario è intitolato a Elisabetta Sirani (Bologna 8 gennaio 1638 – 28 agosto 1665), la più grande artista bolognese di tutti i tempi.
Chi era Elisabetta Sirani
Elisabetta apprese l’arte della pittura dal padre: Giovanni Andrea Sirani (1610-1670), il miglior allievo di Guido Reni.
Nella città natale, Elisabetta trovò un ambiente fertile: Bologna, la città più importante dello Stato pontificio dopo Roma e sede della più antica Università d’Europa, divenne nota anche per il maggior numero di donne erudite: nelle arti, nella giurisprudenza e nelle scienze, in un periodo storico in cui la cultura era riservata quasi esclusivamente agli uomini. In una società (italiana ed europea) ancora fortemente maschilista, una donna colta veniva considerata un caso, un’eccezione ed anche Elisabetta dovette combattere le consuetudini e i pregiudizi per veder riconosciuto il proprio talento, al pari dei colleghi uomini.
Artista precoce, diresse prima la bottega del padre quando si ammalò di gotta, per poi aprirne una propria. Insegnò all’Accademia d’Arte di San Luca a Roma e fondò l’Accademia del Disegno, la prima scuola di pittura femminile d’Europa. Il suo ruolo di donna, che insegnava l’arte ad altre donne, mise in discussione le consuetudini di bottega e dell’educazione artistica, rivolte fino ad allora ai soli colleghi uomini.
Sirani diventò così l’artista donna più celebrata e quotata di Bologna. Fu considerata una “Virtuosa del pennello” per la destrezza tecnica e la velocità di esecuzione delle sue opere, abbinate a un intenso e raffinato senso del colore e del chiaroscuro.
Nel corso della sua breve esistenza, Elisabetta dipinse quasi 200 tele (tutte documentate dall’artista nel proprio diario di lavoro, poi pubblicato da Malvasia), oltre che numerosi disegni e stampe. I suoi lavori godevano di ottima considerazione nei circoli di mercanti e intellettuali, tra le élite aristocratiche ed ecclesiastiche della città; regnanti e diplomatici d’Italia e d’Europa cercarono ansiosamente di possedere una delle sue opere.
Donna erudita e brillante, dedita non solo alla pittura ma anche agli studi letterari e alla musica, Elisabetta diede un contributo decisivo allo sviluppo della Scuola Bolognese del Seicento, divenendo una figura di passaggio fondamentale nel trasmettere alle generazioni successive di artisti, l’elegante classicismo barocco di Guido Reni.
Oggi le sue opere sono esposte nelle più prestigiose collezioni pubbliche e private d’Europa, Gran Bretagna e Stati Uniti.
I soggetti dei suoi dipinti sono quasi sempre donne, caratterizzate da una forza narrativa unica nella rappresentazione della femme fortes: l’eroina biblica, classica, mitologica o letteraria (Cleopatra, Circe, Dalila, Porzia, Giuditta, Timoclea, Iole). Le sue eroine sono figure indipendenti, intelligenti, coraggiose e dotate di valori che al tempo erano generalmente associati alla sfera maschile. La stessa Elisabetta rappresentava un nuovo modello di femminilità: donna virile, nella pratica artistica e nella posizione professionale, che i contemporanei consideravano come “mascolina”. Malvasia, infatti, affermò che Elisabetta dipingeva “più che da uomo” e che “ebbe del virile e del grande”.
Elisabetta fu una delle poche artiste bolognesi a firmare i propri lavori, in un’epoca in cui le firme delle donne non avevano valenza legale; il suo nome è riportato come un ricamo su bottoni, polsini, cuscini e altri particolari dei dipinti, spesso in relazione al contenuto delle opere.
Elisabetta scelse di non spostarsi per dedicare tutta sé stessa all’arte, anche se la morte la colpì ad appena 27 anni, a causa di una peritonite, non per un avvelenamento, come si vociferò a lungo.
Durante il suo funerale, a cui partecipò l’intera Bologna, Giovanni Luigi Picinardi la esaltò come “La gloria del sesso Donnesco, la Gemma d’Italia e il Sole dell’ Europa”, mentre il suo biografo Carlo Cesare Malvasia, che l’aveva incoraggiata nella sua carriera, definì Elisabetta come la “Pittrice Eroina” della sua “Felsina”.